Geoingegneria polare: i nuovi approcci non aiuteranno e, anzi, potrebbero essere dannosi, avvertono gli esperti

Le cinque proposte di geoingegneria polare attualmente più discusse difficilmente potranno aiutare le regioni polari. Potrebbero invece arrecare danni agli ecosistemi, alle relazioni internazionali, e ridurre le possibilità di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
Lo afferma una valutazione appena pubblicata su Frontiers in Science, realizzata da un gruppo di oltre 40 scienziate e scienziati da tutto il mondo che studiano le aree polari, di cui fa parte anche la glaciologa Florence Colleoni, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS. Nella pubblicazione sono state prese in considerazione e analizzate cinque tra le proposte di geoingegneria attualmente più sviluppate per contrastare i cambiamenti già osservabili e quelli proiettati in futuro per l’Antartide e l’Artico.

Le regioni polari ospitano comunità ed ecosistemi fragili, oltre alla maggior parte dei ghiacci del Pianeta, messi in pericolo dai cambiamenti climatici. La geoingegneria polare è una disciplina che punta a progettare interventi fisici su larga scala relativi all’atmosfera, agli oceani, al ghiaccio marino e alle calotte glaciali delle regioni polari per mascherare o ritardare gli effetti del riscaldamento globale. Si tratta di un potenziale complemento, o in alcuni casi di un’alternativa, alla riduzione delle emissioni di gas serra.

Tuttavia, lo studio evidenzia che i cinque metodi presi in esame comporterebbero costi di installazione e manutenzione pari ad almeno decine di miliardi di dollari e non risolverebbero il problema del cambiamento climatico, che solo la mitigazione dei gas serra può realmente contrastare. Inoltre, ridurrebbero la pressione su governi e industrie per diminuire le emissioni di gas serra e introdurrebbero ulteriori problemi ecologici, ambientali, giuridici e politici.

“Ultimamente si discute molto della geoingegneria come possibile soluzione per rallentare la fusione del ghiaccio marino e dei ghiacciai”, racconta Florence Colleoni, glaciologa dell’OGS, tra le autrici dell’articolo scientifico. “Come comunità scientifica abbiamo voluto analizzare con più attenzione queste idee e abbiamo concluso che anche se l’obiettivo e le intenzioni sono condivisibili, si tratta di progetti costosi e complessi, dall’efficacia controversa, che rischiano di distogliere attenzione e risorse da strategie già comprovate: quelle che agiscono direttamente sulla causa del riscaldamento, puntando sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica”. 

I ricercatori hanno esaminato cinque approcci di geoingegneria che hanno recentemente ricevuto particolare attenzione:

●    Iniezioni di aerosol stratosferici (conosciute anche come SAI, dall’inglese Stratospheric Aerosol Injection): rilascio in atmosfera di particelle riflettenti (come aerosol di solfato) per ridurre gli effetti della radiazione solare.

●    Barriere o tende sottomarine: strutture galleggianti e ancorate al fondale, pensate per impedire alle acque calde profonde di raggiungere e fondere le piattaforme di ghiaccio.

●    Gestione del ghiaccio marino: ispessimento artificiale del ghiaccio pompando acqua marina in superficie, o dispersione di microsfere di vetro sul ghiaccio marino ancora rimanente, per aumentarne l’albedo.

●    Rimozione di acqua basale: pompaggio dell’acqua subglaciale al di sotto dei ghiacciai per rallentare lo slittamento basale e ridurre la perdita di ghiaccio.

●    Fertilizzazione oceanica: aggiunta di nutrienti (come ferro) negli oceani polari per stimolare fioriture di fitoplancton, che cattura e trasporta carbonio nelle profondità marine una volta morto.

Le proposte sono state valutate in base a efficacia e fattibilità, conseguenze sull’ambiente, costi, tempi, quadri normativi e potenziale attrattivo per chi vuole evitare tagli alle emissioni di anidride carbonica. I risultati principali mostrano che le proposte non sarebbero realmente di aiuto per costruire strategie atte a mitigare gli effetti del riscaldamento globale nelle regioni polari:
Efficacia e fattibilità. Attualmente, nessuna delle idee proposte dispone di solide prove sperimentali nel mondo reale. Le regioni polari sono tra gli ambienti più difficili al mondo in cui operare, e persino la logistica di base rappresenta una sfida. La geoingegneria polare richiederebbe una presenza umana nelle aree polari di un ordine di grandezza mai considerato prima, e molte delle idee proposte non tengono conto di queste difficoltà.
Conseguenze negative. Tutte le proposte comporterebbero danni ambientali intrinseci. La gestione del ghiaccio marino implica inoltre rischi ecologici significativi, come l’oscuramento del ghiaccio dovuto alle microsfere di vetro e la necessità di infrastrutture imponenti per i sistemi di pompaggio dell’acqua. I rischi legati alla SAI includono il depauperamento dell’ozono e cambiamenti nei modelli climatici globali. Le barriere marine rischiano di alterare habitat, aree di alimentazione e rotte migratorie di numerose specie marine. La rimozione dell’acqua subglaciale, d’altro canto, potrebbe portare alla contaminazione degli ambienti sotto i ghiacciai con carburanti. Infine, la fertilizzazione oceanica presenta incertezze legate a quali organismi potrebbero prosperare o scomparire, con l’ulteriore rischio di provocare profonde alterazioni nei cicli chimici naturali dell’oceano.
Costi. L’articolo stima che ciascuna proposta richiederebbe almeno 10 miliardi di dollari per la messa in atto e la manutenzione. Tra le più costose figurano le barriere marine, con una proiezione di 80 miliardi di dollari in 10 anni per una struttura lunga 80 km. Gli autori avvertono che queste cifre sono probabilmente sottostimate e che i costi reali aumenterebbero ulteriormente se si considerano le conseguenze indirette, come gli impatti ambientali e logistici.
Governance. Ad oggi non esistono quadri normativi per regolamentare la SAI o la gestione del ghiaccio marino. Le barriere marine e la rimozione dell’acqua subglaciale rientrerebbero nelle disposizioni del Trattato Antartico, mentre la fertilizzazione oceanica è considerata una forma di inquinamento marino ed è pertanto soggetta a restrizioni secondo le normative delle Nazioni Unite. Tutte le proposte richiederebbero negoziati politici approfonditi e la creazione di nuove strutture e infrastrutture di governance.
Scala e tempistiche. Anche se alcune proposte potrebbero portare benefici, nessuna può essere implementata su scala adeguata e in tempi sufficientemente rapidi per affrontare la crisi climatica.
Rischio di compiacere interessi particolari. Tutte le proposte potrebbero risultare attraenti per chi cerca di evitare tagli alle emissioni. Nello studio viene anche dichiarato che sono fuorvianti le affermazioni secondo cui la gestione del ghiaccio marino tutelerebbe i diritti e gli ambienti delle popolazioni indigene, visto che solo una rapida decarbonizzazione può garantire questo risultato senza rischi.
“La metà del secolo si avvicina, ma il nostro tempo, il nostro denaro e le nostre competenze sono divisi tra gli sforzi comprovati per raggiungere la neutralità climatica e i progetti speculativi di geoingegneria”, ha dichiarato Martin Siegert, Professore all’Università di Exeter e primo autore dell’articolo. “Siamo fiduciosi di poter eliminare le emissioni entro il 2050, a patto di unire i nostri sforzi verso l’obiettivo delle emissioni zero”.

Gli autori hanno sottolineato che, sebbene la loro valutazione si concentri sulle aree polari, anche altre idee di geoingegneria — come lo “schiarimento” delle nubi marine (in inglese, Marine Cloud Brightening) o l’installazione di riflettori solari nello spazio — devono essere valutate secondo gli stessi criteri.

“La buona notizia è che disponiamo già di obiettivi che sappiamo essere raggiungibili. Il riscaldamento globale probabilmente si stabilizzerà entro vent’anni dal raggiungimento della neutralità climatica. Le temperature smetteranno di salire, offrendo benefici significativi per le regioni polari, il pianeta e tutte le forme di vita”, conclude Siegert.

 

FOTO: PNRA

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